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Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento Collettivo
Data: 10/11/2005
Giudice: Schiavone
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 826/05
Parti: Mauro M. / Poligrafici Editoriale SpA
LICENZIAMENTO COLLETTIVO: CARATTERISTICHE. – ACCORDO SINDACALE CHE PREVEDE LA VICINANZA AL PENSIONAMENTO QUALE UNICO CRITERIO DI SCELTA: VALIDITA


Un dipendente di Poste Italiane collocato in mobilità a seguito di una procedura di cui alla legge 223/1991 - che coinvolgeva migliaia di dipendenti - conclusasi con accordo collettivo 17.10.2001, chiedeva ed otteneva dal Tribunale del lavoro di Bologna la dichiarazione di illegittimità del suo licenziamento e l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte d’Appello di Bologna, peraltro, pronunciatasi a seguito dell’impugnazione della sentenza di primo grado da parte di Poste Italiane, si è dimostrata di diverso avviso ed ha accolto l’appello della società con una sentenza che affronta diverse problematiche in materia di licenziamenti collettivi.

La Corte parte dalla premessa “politica” della necessità di contemperare le esigenze riequilibrio dei costi di una “azienda pubblica (alquanto diverse rispetto a quelle di una consimile meramente privata, specie se si pensa che lo sbilancio grava complessivamente su tutta la comunità nazionale) con quelle di tutela del posto di lavoro che pur costituisce bene di carattere costituzionale” evidenziando che “il riequilibrio dei costi aziendali è un obiettivo il cui perseguimento, alla luce dell’art. 41 Cost. risulta indispensabile oltreché lecito”.

Quanto poi alla censura secondo cui nel caso di specie non vi sarebbe stata alcuna riduzione o contrazione di lavoro, la Corte sembrerebbe – apparentemente – aderire alla teoria della “acausalità” del licenziamento collettivo, secondo cui nell’ambito di questa disciplina sarebbe “ultronea ogni indagine circa l’esistenza o meno di un programma di ristrutturazione aziendale” assumendo rilievo (solo) “il mancato espletamento dell’iter processuale delineato dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991” (Cass. 9045/00; conf. n. 1061/99; n. 5662/98; n. 5794/04). Secondo la Corte d’Appello di Bologna, infatti la scelta del legislatore è stata nel senso di “attuare le garanzie attraverso la sempre più consueta prassi della cd. procedimentalizzazione del provvedimento datoriale e della strada da percorrere per giungervi” passando quindi “dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti d’azienda”. Al di fuori della correttezza procedurale dell’operazione, quindi, non potrebbero “trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali (…) si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva” (Cass. n. 11455/99).

Nel contempo, però, la stessa Corte d’Appello afferma che “i presupposti di fatto presi in considerazione al fine di legittimare il ricorso ai licenziamenti collettivi sono due, ciascuno articolato in due variabili. Essi consistono nella scelta imprenditoriale di una riduzione dell’attività o del lavoro ma anche in una trasformazione sempre dell’attività o del lavoro. L’uso della disgiuntiva da parte della legge, ha avvertito la dottrina più attenta, autorizza questo inquadramento”. I giudici bolognesi sembrano allora attribuire rilevanza dirimente alla sussistenza del requisito causale, laddove legittimano il ricorso ai licenziamenti collettivi solo in sua presenza, che nel caso in esame viene individuato in una “trasformazione aziendale”, vale a dire in una “trasformazione dell’impegno mercantile dell’azienda (…) ovvero ad una razionalizzazione della sua articolazione” [anche se, invero, nella parte finale della sentenza, riaffermano “che l’autorità giudiziaria non può essere investita di un’indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (arg. ex Cass. n. 11455/99; n. 5516/03; n. 9134/04)”].

Venendo poi ad esaminare la regolarità o meno dello svolgimento della procedura, la Corte ritiene innanzi tutto esauriente e sufficientemente analitica la comunicazione iniziale, alla quale attribuisce “il requisito della completezza finalistica, nel senso che esso è sicuramente un solido punto di partenza da cui le parti collettive potevano prendere le mosse nella disamina della situazione aziendale, alla luce degli insindacabili obiettivi imprenditoriali”, precisando che il fatto che la finalità di favorire la gestione contrattata della crisi sia stata realizzata con accordo sindacale “è rilevante ai fini del giudizio di completezza della comunicazione ai sensi del citato art. 4 comma terzo della legge n. 223 del 1991 (Cass. n. 9015/03)”

Inoltre, richiamando Cass. n. 4228/00, la Corte afferma che le eventuali insufficienze della comunicazione di avvio della procedura, pur non perdendo rilievo per il solo fatto che sia stato poi stipulato un accordo di mobilità, non sarebbero invocabili dal singolo dipendente licenziato: “poiché il lavoratore non è destinatario della comunicazione di avvio della procedura e non è abilitato a partecipare all’esame della situazione di crisi e a proporre soluzioni di crisi della stessa, non può far valere in giudizio a propria tutela, in ogni caso, l’inadeguatezza della comunicazione”.

Da ultimo i giudici di secondo grado valutano il criterio individuato dall’Accordo sottoscritto il 17 ottobre 2001, il quale prevedeva che in due diverse fasi temporali – al 31 dicembre 2001 e 2002 – l’Azienda avrebbe risolto il rapporto “di tutto il personale che alla data medesima risulti già in possesso dei requisiti per il diritto alla pensione di anzianità e di vecchiaia” fatta sempre salva la possibilità per lo stesso di risolvere consensualmente il rapporto beneficiando dei trattamenti di incentivazione all’esodo. Ed evidenziano che come conseguenza della politica aziendale di ulteriore incentivazione ed agevolazione gli esuberi, inizialmente quantificati in 9.000, poi erano calati a poco più di 7.000, divenendo alla fine poco più di 900 di cui solo 450 destinatari in concreto del licenziamento, avendo gli altri aderito alle dimissioni incentivate.

Citando il Supremo Collegio, affermano che “appare razionalmente adeguato rispetto all’esigenza di attuare una riduzione del personale, il ricorso al criterio della prossimità al trattamento pensionistico giustificato dal minore impatto sociale (Cass. n. 9134/04; conf. n. 13962/02; n. 4149/01)” in quanto detto criterio “consente di formare una graduatoria rigida e quindi di essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità per il datore di lavoro (Cass. n. 6567/02; n. 1760/99; n. 11875/00; n. 4140/01; 10171/01). Esso, inoltre, sarebbe ritenuto “esemplificazione di criterio razionalmente giustificato, ai fini dei licenziamento collettivi”, anche dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 268 del 1994).

Va peraltro osservato, sul punto, che oggi il D.lgs. n. 216/2003 prevede il fattore “età” tra quelli considerati espressamente discriminatori dalla legge: il che pone fondati dubbi sulla legittimità di criteri di scelta – anche se concordati – del personale da collocare in mobilità che facciano riferimento proprio al raggiungimento dell’età pensionabile.